mercoledì 22 maggio 2013

Il grande Gatsby

La settimana scorsa ho letto per la terza volta Il grande Gatsby. Non che mi capiti spesso di leggere un libro tre volte, anzi, non mi capita mai, ma in questo caso è diverso. La prima volta avevo dieci anni e per me Il grande Gatsby resta in qualche modo legato all’infanzia, non fosse altro che per il fatto che certe frasi e certe immagini me le sono portate dentro da allora. Avevo trovato quel libro in regalo con Grazia, che a quei tempi era un settimanale e aveva pubblicato una collana dal titolo I grandi romanzi d’amore di Grazia. Così mi ritrovai tra le mani Il grande Gatsby, insieme ad alcuni romanzi della Sagan e di Constance Heaven.
Tuttora non sono in grado di dire se sia un grande romanzo, un capolavoro, oppure il racconto mediocre di uno scrittore sopravvalutato, perché questo libro è così parte di me che non riesco ad essere obiettiva. Non ho mai visto il film con Robert Redford e Mia Farrow, i miei ricordi de Il grande Gatsby sono solo legati a quello che ho letto. Ci sono frasi che mi accompagnano da quando avevo dieci anni, come “Gatsby si rivelò un tipo a posto” e “sono una delle poche persone oneste che conosco”. E poi ora, rileggendolo, ho appena scoperto che in realtà “Gatsby si rivelò degno” e non so se nella traduzione di allora “degno” fosse stato sostituito con “un tipo a posto”, o se l’abbia sostituito io, nella mia memoria, nel corso degli anni. Forse perché degno era pomposo e faceva ridere e invece un tipo a posto era molto più colloquiale.
La seconda volta che lo lessi avevo venticinque anni, ero appena tornata da un viaggio negli Stati Uniti e andavo alla ricerca di queste frasi, ma forse mi interessava anche la descrizione delle due uova, West Egg e East Egg, a cui avevo ripensato mentre ero a New York e che mi aveva tanto affascinato la prima volta. In quella descrizione veniva annunciata la contrapposizione tra est e ovest che attraversa tutto il romanzo, ma che purtroppo è andata irrimediabilmente persa dalla critica, che si ostina invece a infilare ovunque Zelda, la moglie di Fitzgerald, e la sua malattia mentale. Anche nel film, la parte più fastidiosa è proprio la cornice della clinica psichiatrica, la forzatura che allontana il cinema dal romanzo.
Per una bambina di dieci anni, che leggeva Il grande Gatsby senza sapere niente di Fitzgerald e di sua moglie, invece, quella descrizione appariva bellissima e faceva venire voglia di continuare a leggere tutto il romanzo, che scorre veloce nel breve arco di un’estate. Lo divorai a dieci anni e a venticinque e l’ho divorato la settimana scorsa. Per me resta il romanzo dell’infanzia, alla stregua delle fiabe, perché, indipendentemente dal fatto che finisca male, resta pur sempre una fiaba: chi mai nella realtà inseguirebbe così ostinatamente un sogno?
“Gatsby credeva nella luce verde”. Nel bene e nel male Gatsby credeva nel suo sogno e anche se alla fine il suo sogno finisce così miseramente, in modo quasi ridicolo, la sua grandezza è in questo, nell’averci creduto fino in fondo.
A parte la storia della clinica psichiatrica, il film mi è piaciuto. Per me un film tratto da un romanzo è ben fatto quanto più resta fedele al testo. In questo caso, chi ha amato il romanzo, non può non apprezzare il film. Gli altri credo che in qualche modo abbiano problemi con il romanzo stesso.
Ho letto su una rivista che il libro è pessimista e quello che invece attrae è l’età del jazz, i vestiti, etc. Quindi di nuovo l’inutile e morbosa ricerca di Zelda.
Sarò condizionata dalla mia prima lettura infantile, ma anche adesso che è tornato di moda per via del film e non è più solo mio, il libro letto velocemente da una bambina, che riuscì a vedere, dal divano di casa sua, East Egg e West Egg, non capisco come possa essere protagonista l’età del jazz e credo anzi che, se i veri protagonisti fossero stati i vestiti luccicanti, a nessuno sarebbe venuto in mente di fare un remake del film nel 2013, perché la storia di Gatsby sarebbe stata così datata e superata da non destare nessun interesse.
Il vero protagonista, quello che spinge a leggere velocemente il libro dall’inizio alla fine, è proprio, banalmente, Gatsby. Credo sia uno dei personaggi meglio costruiti: ricchissimo, misterioso e solo. Appare per la prima volta una sera, quando viene visto da Nick Carraway mentre cammina sul suo prato azzurro e guarda la luce verde. In questa presentazione c’è tutto il personaggio e viene voglia di andare avanti a leggere perché si vuole che sia proprio così: ricchissimo, misterioso e solo. E chi è più solo di un personaggio che organizza grandi feste riempiendosi la casa di invitati che nemmeno lo conoscono?
Eppure Gatsby, ragazzo poverissimo, è riuscito a diventare straricco per inseguire il suo sogno. E non importa come sia diventato ricco perché l’ingenuità con cui insegue il suo sogno lo eleva al di sopra di tutto, persino al di sopra del suo vestito rosa e della sua auto da cafone. Gatsby insegue un sogno, che solo quando appare vicino e quasi raggiunto, sembra perdere la propria importanza. Ma per fortuna la luce verde resta dall’altra parte della baia e il sogno resta un sogno.
L’unico elemento che è stato eliminato dal film è l’arrivo del padre di Gatsby, che, nonostante sia impressionato dalla casa e dalla ricchezza del figlio, ci tiene a far notare che il suo nome è Gatz. E’ strano perché, nella mia memoria, le precedenti letture non avevano lasciato traccia di questa apparizione, che, se da un lato offre la certezza sulle origini di Gatsby, riducendone in parte il mistero, non sminuisce la fiaba di un personaggio che resta lontanissimo dalla realtà pur essendo fin troppo umano.
“Mi ritrovai da solo dalla parte di Gatsby”, dice Nick Carraway, il narratore, personaggio le cui vicende restano un po’ in ombra. E’ il ragazzo a cui non importa dei soldi perché conscio comunque di essere un privilegiato, in quanto appartiene ad una buona famiglia. Per lui è più importante essere onesto e di sani principi che ricco. E qui la fiaba è completa: l’erba del vicino è sempre più verde, ma il prato del vicino di Nick Carraway è azzurro.